A qualcuno piace povera: la nostra lingua, non è un mistero, si impoverisce sempre di più.

Da anni c’è questa tendenza diffusa a depredare il nostro lessico, che “perde parole” o sdogana strafalcioni: un impoverimento che investe il vocabolario ed anche la comprensione dei testi e del significato delle parole, ovvero la semantica. L’espressione si è fatta progressivamente più semplificata, massificata e povera di argomentazioni, sia nel parlato sia nello scritto, senza contare l’invasione di prestiti e vocaboli anglofoni e non solo, con cui l’italiano deve rivaleggiare annoverando ben pochi difensori; i più strenui, accusati di nostalgico passatismo, anzi di essere “boomer” (termine ironico e spregiativo utilizzato dai giovani per definire i nati durante il boom economico del Dopoguerra, ovvero una generazione dai modi superati e poco incline all’uso della tecnologia).

L’allarme è stato lanciato da tempo e a gran voce non solo da esimi linguisti – “Accademici della Crusca” in testa – ma anche da docenti ed educatori: eppure nessuno pare “filarseli”, per usare un termine in gran voga.

Nel 2017, oltre 600 docenti universitari hanno addirittura firmato una “Lettera aperta” che è un appello contro il declino dell’italiano a scuola e le lacune linguistiche sempre più gravi riscontrate nei testi degli studenti, incapaci di scrivere o analizzare le frasi più semplici. Pare che circa tre quarti degli studenti che escono dalle lauree triennali siano, di fatto, semi-analfabeti: “una tragedia nazionale non percepita dall’opinione pubblica, né dalla stampa né dalla classe politica”.

Uno dei firmatari, il Prof. Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, ha più volte sottolineato i rischi di questo radicale impoverimento della lingua, che non investe solo l’ortografia e la grammatica, ma anche la capacità di lettura, quella interpretativa ed altre competenze fondamentali: “Le difficoltà lessicali ormai così diffuse rischiano di portare con sé problemi di tipo cognitivo: mi riferisco all’incapacità di radicarsi in un sapere verticale, da parte dei giovani, e dunque di analizzare la realtà con atteggiamento critico”.

Una forma di analfabetismo

È un fatto che un’ondata di analfabetismo funzionale o “illetteratismo” stia imperversando per il Paese, falcidiato a colpi di crisi, digitalizzazione forzata e pandemia proprio nei suoi organi più delicati: sanità, istruzione e cultura.

Sotto accusa i soliti media, TV, internet e social in testa, ma anche l’abbandono di alcune “vecchie” e sane consuetudini didattiche, come la lettura e l’analisi dei testi letterari, lo studio mnemonico dei componimenti poetici, l’esercizio critico e della sintesi, l’allenamento al pensiero logico e argomentativo.

E così, mentre nel post-pandemia è cresciuto di un inquietante 67% l’utilizzo di device tecnologici da parte dei minori di 18 anni, e mentre fioccano ingiustificati neologismi e aberranti idiomi digitali a suon di “tweet”, “like”, “influencer”, slogan e demenzialità varie che si riproducono come conigli sui social, gli italiani risultano sempre meno capaci di articolare pensieri e concetti complessi, sovente ignorano o non trovano le parole per esprimerli.

Le nuove generazioni si sono ormai abituate, anzi assuefatte a certa tipologia di linguaggio, sfornano risposte senza elaborare concetti, perdendo l’abitudine ad argomentare, a sostenere discorsi profondi ed articolati, a vagliare criticamente le conoscenze: sembrano aver assorbito la dicotomia essenziale del linguaggio informatico, perdendo le tante sfumature della complessità.

Tra il mero “mi piace” e “non mi piace”, si perde così ogni aguzzo “perché”, mentre la ricchezza e l’eleganza della nostra lingua avvizziscono sotto forme dialettali, forestierismi, prestiti dalla pubblicità e dai media, espressioni gergali e giovanilistiche, come i vari “scialla” (=tranquillo); “lovvare” (=amare); “drinkare” (=bere); “appiccio” (=accendino); “flammare” (=litigare animosamente tramite messaggi); “floppare” (=sbagliare); “bannare” (=espellere); “impanzare” (=mettere incinta una ragazza); “nerdare” (=giocare accanitamente ai videogiochi); “rinco” (=rimbecillito); “crush” (=cotta o persona per cui si ha un’infatuazione); “schioppare” (=scoppiare); “smella” (=cattivo odore); “whatsappare” (=inviare un messaggio tramite WhatsApp); “stare sotto” (=essere molto coinvolto in un rapporto”); e la lista potrebbe allungarsi “una cifra” (=molto, tantissimo)!

A causa della consuetudine con un linguaggio rapido, sciatto e troppo semplificato, la stessa modalità di comunicare è mutata, risultando veloce, essenziale, pragmatica, poco affettiva, direi consumistica e predatoria; ciò intacca alcune categorie cruciali dell’esperienza interiore e la stessa capacità di pensare è impoverita, giacché la “sciatteria” nell’uso delle parole si rispecchia inevitabilmente nella sciatteria del pensiero.

E qui non serve scomodare Jerome Bruner con il suo capolavoro “La mente a più dimensioni” o le conquiste delle neuroscienze per rimarcare la stretta correlazione tra l’uso della lingua e il funzionamento cognitivo: il linguaggio è il principale strumento del pensiero, modula e modifica la mente, coinvolge (anche a livello di circuiti neurali) la capacità di comprendere, discernere, elaborare stimoli ed esperienze, categorizzare la realtà, riflettere e astrarre, giudicare e decidere, così come molte altre dimensioni dell’intelligenza.

La funzione del linguaggio

Il linguaggio ha un potere non solo trasmissivo, ma “creativo” di conoscenza e di realtà; non esiste infatti un unico immutabile “mondo reale” che preesista e sia indipendente dall’attività mentale umana e dal linguaggio umano: secondo Nelson Goodman, il filosofo degli “infiniti mondi possibili”, quello che noi chiamiamo mondo è il prodotto di una mente, delle sue percezioni e dei suoi sistemi simbolici, lingua inclusa.

Gli esseri umani entrano in relazione tra loro soprattutto mediante il linguaggio, e creano delle transazioni; Bruner le spiega come rapporti che approdano alla “condivisione di assunti e di credenze riguardanti la realtà del mondo, il funzionamento della mente, gli orientamenti degli uomini e i modi in cui dovrebbe esplicarsi la comunicazione tra loro”.

Le realtà sociali sono dunque i significati a cui gli uomini pervengono mettendo in comune le proprie conoscenze e negoziando il loro significato; così, una cultura vive un processo di rielaborazione costante, in quanto viene costantemente re-interpretata dai suoi membri. La lingua pertanto costituisce il medium basilare, l’orizzonte imprescindibile di qualunque processo educativo e culturale, non solo: organizza e dà forma all’esperienza umana, le conferisce un significato e la interpreta.

Prendersi cura del linguaggio, delle parole che si usano per esprimersi, significa quindi in un certo senso prendersi cura di sé, arricchire se stessi, la propria storia, la propria capacità di comunicare e di rappresentarsi il mondo; dunque, la propria vita.

Suonerà un monito allarmista, ma il deterioramento progressivo della lingua, l’appiattimento su un registro unico, così come l’attitudine alla semplificazione e all’omologazione, rappresentano un rischio anche per l’identità nazionale, per la cultura e perfino la democrazia. Il rapporto tra lingua, pensiero e potere, è infatti sottile e poco immediato, ma molto profondo.

Detto in soldoni, un popolo di deficienti si riesce a manipolare e controllare con molta facilità, anzi “un sacco meglio”.