Il grande sviluppo della tecnologia che stiamo vivendo è rivoluzionario perché ci fa intravvedere sconfinati orizzonti e ci offre una strana sensazione di onnipotenza. Per contro però le interazioni comunicative non sembrano migliorate e l’esistenza “liquida” nella quale viviamo ci rende instabili e incerti. È in aumento il senso di precarietà come pure l’insicurezza delle nostre competenze. Gli adulti sembrano meno adulti e i giovani meno bisognosi di loro per crescere. Una recente ricerca ha messo in evidenza che fino a 9-10 anni i bambini chiedono informazioni ai genitori, poi hanno google a cui attingere e non domandano più nulla a loro, perché hanno capito che non sanno e si arrangiano.
In casa, allora, si parla sempre di meno e la famiglia sembra avvolta in uno spaventoso silenzio che è assenza di parola ma anche di regole e autorevolezza. La comunicazione digitale è stata normalizzata e percepita come modalità di reale interazione tra gli individui, senza pensare che questa assolve solo una parte del compito comunicativo, in quanto è parola senza corpo, senza gesti né sguardi. Connessi continuamente e legati gli uni agli altri come da un infinito cordone ombelicale giovani e adulti, stanno uno a fianco all’altro, vicini vicini, collegati con il mondo intero, ma non si vedono, né si ascoltano. Spesso non si capiscono.
È in atto una nuova forma di trascuratezza collettiva. La rivoluzione è dunque quella delle relazioni, del modo di stare insieme e delle interazioni tra gli esseri umani. La chiamiamo per questo “rivoluzione antropologica” in quanto interessa l’uomo e la costruzione dell’umano.
Ora giovani e giovanissimi ne sanno più degli adulti, almeno per quanto riguarda il funzionamento degli strumenti digitali, mentre i grandi utilizzano media inventati dai ragazzini e abitano un mondo costruito da loro e per loro. I millennials influenzano tutti con i loro comportamenti.
Per esempio hanno l’abitudine di condividere immediatamente ogni cosa sui social. Mettono in comune quello che accade a loro senza alcuna elaborazione e questo modo di fare ha come conseguenza quello di rendere superficiale e emotiva ogni esperienza. Il contagio è inevitabile e finisce per mutare un po’ in tutti il modo di vivere gli affetti. Così ci si ama non tanto per i sentimenti che ci legano e abbiamo in comune o per le cose che facciamo insieme, ma perché con lei o con lui proviamo forti emozioni. Quando ad un certo punto non se ne provano più, il rapporto si esaurisce e la relazione naufraga. Si cerca allora immediatamente un altro rapporto con lo stesso meccanismo che regola le relazioni sui social: tweettiamo con frammentaria intensità e con un semplice click azzeriamo tutto quando il rapporto ha smesso di essere adrenalinico. Contemporaneamente si apre una nuova “conversazione” affettiva!
Stiamo così costruendo la vita reale sulla falsariga di quella virtuale. E non sono i grandi a dare indicazioni di comportamento ai minori. Tutt’altro. Perché loro, con una pericolosa collisione narcisistica, da tempo condividono con gli adolescenti quell’ acuto bisogno di visibilità che nei ragazzi fa parte del processo di individuazione. In fondo se gli adulti appoggiano l’idea che il successo nella vita si misura con il diventare popolari attraverso la rappresentazione continua della propria immagine, si allineano perfettamente con questo codice di comunicazione collettiva.
È evidente che affascinati da questi nuovi miraggi la vecchia generazione abbia poco da dire e pochissimo da trasmettere. Il pericolo al tempo delle rivoluzionarie trasformazioni tecnologiche, è quello di non tener fede al progetto educativo.